È
un cubo squadrato di blocchetti appena spruzzato di malta, il dieci di via
Verdi, e si trova circa duecento metri più in basso dello stradone che penso
porti senz’altro a Roma, mentre vicino, nella via di casa mia, sarà passato
senz’altro Giuseppe Verdi. Non vedo altro motivo per cui debbano avere quei
nomi! La casa di nonna Giuannica si trova ancora più giù, nell’ultimo cortile
della via san Giovanni, il patrono della chiesa principale. In fronte a
s’intrada, nel muro a secco che separa
la propria casa dall’abitazione di sua cugina Virginia. Sbucano, tra un sasso e
l’altro, piccoli ciuffi di ambrosia e tralci di rovo ricolmi di more selvatiche.
C’è da graffiarsi a prendere le migliori.
«Peccato
che quelle più grosse e nere siano sempre nei cespugli più alti.»
Accanto
c’è l’abitazione di zia Priama, sorella di nonna Giuannica. La casa è
delimitata dallo spazio dove ci sta, “esatto esatto”, il carro di mio nonno.
Con un po’ di fantasia, anch’esso è un posto speciale per giocare anche se, per
dirla tutta, nonno Battista non è d’accordo. Bisogna andarci quando lui è
lontano, ed io mi ci trovo spesso con Angela, la mia amichetta che abita a metà
strada. Per fare il gioco del carro, occorre essere in tanti, perché, mentre
uno di loro sta seduto in cima alla scala, dove si attacca il giogo, nell’altra
estremità, composta da tre assi lisce – che serve da sedile al contadino – ci
si deve appoggiare il gruppo dei bambini, per fare da contrappeso alla punta
del carro. Mi piace sedermi in cima, mi sento importante quanto un prode
condottiero. Certo, però, che fa paura l’attimo in cui si sta sospesi
attendendo che gli amichetti saltino di colpo, e la scala del carro precipiti
schiantandosi a terra con un tonfo rumoroso. Mi tengo fortissimo per non
cadere, orgogliosa di superare quella prova.
«Se
anche non sono la più bella, sono però la più coraggiosa.»
Non
finisce sempre in modo divertente, certe volte a causa dei lividi da
capitombolo, altre per allarmi improvvisi, come quando nonno ritornò
improvvisamente a casa, freddando il sapore delle mie vertigini. Un vero
terremoto. Mi trovavo in cima contenta e spavalda, quando ad un tratto vidi i
miei amici impallidire. Girandomi lo vidi che mi fissava, come fa la poiana con
la lucertola. Di botto la presa delle mani girò a vuoto facendomi vacillare
malamente.
«Che
cosa state facendo? Ma tu guarda questi bambini disubbidienti! Mirella, scendi
giù, che con te facciamo i conti.»
Aveva
puntato l’indice verso terra aggrottando le sopracciglia.
«Mamma
mia quant’è brutto quando fa così!»
Non
avendo scelta, ero scesa, aiutata da lui, mentre le altre bambine furono
scacciate in malo modo. Quella volta mi indispettii parecchio, fui l’unica a
prenderle.
«Gli
attrezzi vanno rispettati, sia quando io sono presente o meno. Nessuno ce li
ripagherà, se li rompete. E non lo ripeterò più.»
Ci
fu ancheuna ulteriore “aggiunta” quando mi riaccompagnò a casa, da parte di mia
madre che non riusciva a farne bene di me:
così diceva scuotendo testa e mani.
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