lunedì 16 ottobre 2017

Se i muri parlassero, ne avrebbero da raccontare


I profumi intensi rendono le mie gambe molli. È così che l’aria mi stordisce sulla panchina, mentre i miei figli giocano nei giardinetti. Con tutto quello che si vede al telegiornale, vivo con apprensione costante, per questo li tengo sempre sotto controllo. I bambini con le guance arrossate ruotano sulla piccola giostra che cigola a ogni giro. Instancabili nel salire e scendere o passare di là, al grosso scivolo rosso. Le braccia infagottate nei giubbini variopinti da ideogrammi giapponesi sembrano salcicce. In cima ai gradini dello scivolo si spingono e si strattonano atterrando sulla sabbia.

Nonostante la mia giovane età, non riuscirei più a star dietro alla loro euforia, così li osservo da lontano mentre cerco di rilassarmi leggendo un libro. Puntualmente, il torpore mi tradisce ed il libro aperto scivola lentamente dalle mani, facendomi perdere il segno, così i bambini si sentono finalmente liberi di entrare al bar di Pagano dove quei giochi infernali, che li agitano tanto da alterare il sonno, sono alla loro portata. In particolare a Lorenzo, che fra i due è il più appassionato di videogiochi, capita di svegliarsi in piena notte di soprassalto.
«Ammazzalo, ammazzalo»

Sono pericolosi. Non sanno più cosa inventare. Certamente al tempo in cui ero bambina, questi giochi non esistevano. Tutto era più semplice e soprattutto utile, per tenere a bada l’emotività dei bambini. Si usava la concentrazione o l’abilità fisica, piuttosto che stimoli martellanti! Ogni tanto sollevo gli occhi verso l’orologio del campanile che non dista tanto lontano.
«Uff.»

È quasi ora di rientrare a casa, ma le mie gambe non seguono il pensiero. Indugiano in un torpore persuasivo dove sento affiorare un sorriso, mentre fuggo da tutt’altra parte, in un altro periodo della mia vita. Vorrei diluire il tempo a piacimento per potermi crogiolare nella nostalgia di un passato, che il tempo non è riuscito a scalfire. Mi abbandono, scossa da un leggero fremito che mi trascina nei primi anni Sessanta. Alla mia infanzia nel paese d’Ilbono, In Sardegna.

Chiamare strada quella che, scapicollandosi da metà paese, va in giù ad intrufolarsi nei piccoli orti di “binja de ‘omu” e appena oltre in su “fossu de Giaccu”, sarebbe stimarla troppo. È larga giusto il tanto da far passare un carro e pavimentata con ciottoli di fiume, tenuti in ordine dalla terra compattata, e merita appieno la vecchia denominazione di via Rompicollo (poi convertita in Giuseppe Verdi).

 Ci sono anche le case delle galline e dei maiali, ma direi che quegli animali rischiano grosso in quei muri mal messi, con le travi sempre in bilico e le finestre scardinate che lasciano buchi così grossi da sembrare bocche sdentate pronte ad ingoiarti. Eppure è fantastico giocarvi. Le stesse abitazioni sono scalcinate; mostrano frammenti di sassi incastrati sulle pareti non proprio a piombo ed i tetti, a livelli sfalsati, che seguono l’andamento della discesa, sono coperti da vecchie tegole brune, tenute salde da grossi sassi.
«Se parlassero i muri, ce ne sarebbe da raccontare... eh!»


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